Battaglie In Sintesi
novembre 1274 e giugno-agosto 1281
Gran khan dei Mongoli e imperatore della Cina (n. 1215 - m. 1294), nipote di Genghiz khan. Incaricato (1251) da suo fratello Mangu, gran khan, di amministrare le province mongole della Cina settentrionale, Qubilay prese parte alla guerra contro i Song che regnavano nella Cina meridionale. Alla morte di Mangu (1259), l'unità dell'impero sembrò messa in pericolo dai vari pretendenti al khanato supremo, ma Qubilay, respinti tali tentativi, rimase capo incontrastato dell'impero; spostò la capitale da Karakorum a Pechino (1264) e fondò la dinastia Yuan. Tra il 1276 e il 1279 completò la conquista della Cina, dopo di che inviò, con scarsa fortuna, spedizioni militari nei paesi dell'Asia meridionale e contro il Giappone. Alla sua corte soggiornò a lungo Marco Polo. Eclettico e tollerante in fatto di religione, subì l'influenza della civiltà cinese.
Fu la famiglia che governò il Giappone praticamente dal 1200 al 1333. Nel 1199, alla morte di Yoritomo, suo suocero Tokimasa divenne reggente shogunale (shikken) per i figli Yoriie e Sanetomo. Gli successe nel 1205 il figlio Yoshitoki, il quale, dopo l'assassinio di Sanetomo (1219), gestì il passaggio sulla carica di shogun di Fujiwara Yoritsune, a cui seguirono altri principi provenienti dalla corte imperiale. Gli H. ridimensionarono fortemente il potere della nobiltà di corte e dei grandi monasteri del Giappone occid. a beneficio dei guerrieri loro vassalli, originari del Giappone orientale. Frutto del nuovo assetto della classe dirigente fu un codice di leggi emanato nel 1232 (Joei Shikimoku). La carica di shikken fu in seguito assunta da Yasutoki (1225-42), al quale si devono numerose riforme, da Tsunetoki (1243-46) e da Tokiyori (1246-56). Il successore Tokimune (1257-84) fronteggiò due tentativi di invasione del Giappone (1274 e 1281) da parte di Qubilay Khan. Le conseguenze furono deleterie per gli H., i quali dovettero remunerare i guerrieri che avevano combattuto contro gli invasori. Ne seguì una serie di ribellioni e intrighi, che spinsero i reggenti a rendere sempre più autoritario il regime. Sotto Sadatoki (1284-1300) questo sviluppo si fece particolarmente stringente. Secondo la storiografia tradizionale l'ultimo shikken, Takatoki (1303-33), fu un principe superficiale e tirannico che aprì la strada alla ribellione dell'imperatore Go Daigo.
Nel 1259, Qubilai, nipote di Gengis Khan, si insediò come primo monarca della dinastia Yuan in Cina. Nel processo di instaurazione del governo mongolo su tutto il Paese, solo la morente dinastia Sung, nel sud, restava ancora indomita. Dopo aver stabilito la supremazia sulla Corea, Qubilai decise che il prossimo bersaglio sarebbe stato lo Stato insulare del Giappone. Nel 1268, egli inviò ambasciatori presso il governo giapponese a chiedere il riconoscimento della sua sovranità su quella nazione, altrimenti - Qubilai fu chiaro su questo punto - sarebbe stata la guerra. In quel tempo, a guidare il Giappone era un diciottenne, Hojo Tokimune, capo del bakufu, l'autorità militare che governava in nome dell'imperatore. La minaccia non poteva essere sottovalutata: i contatti giapponesi in Corea e i comandanti delle navi provenienti dai porti Sung confermarono al bakufu la natura aggressiva dei Mongoli. Non volendo provocare direttamente il Gran Khan, il governo decise di non rispondere alla richiesta e trascorse l'intervallo prima dell'invasione approntando le difese del Paese. Nella capitale Kamakura, Hojo ordinò ai vassalli delle province occidentali di radunare i loro sudditi per prepararsi a contrastare l'attacco. I signori delle terre sulla costa occidentale avrebbero dovuto mantenere sotto controllo i litorali con truppe che sarebbero state periodicamente sostituite da altre provenienti dai feudi dell'entroterra. Dal momento in cui vennero espulsi gli inviati di Qubilai all'inizio dell'invasione trascorsero cinque anni: riuscire a mantenere i suoi guerrieri samurai in costante stato di allerta fu un grande successo, per Hojo. Tuttavia, egli venne aiutato in questo compito da capi religiosi giapponesi, in particolare da un monaco buddista di nome Nichiren: questi criticava pubblicamente il fatto che Hojo seguisse gli insegnamenti del monaco del buddismo Zen Bukkò, un esule del regime mongolo in Cina. Nichiren affermava che il Giappone doveva essere unito nella devozione al Sutra del loto, altrimenti gli dèi avrebbero punito il Paese. Tale rivalità tra gli ordini religiosi mantenne la popolazione attenta al pericolo di un'invasione straniera. Nel 1274, Qubilai cominciò a concentrare navi nei porti coreani, circa 900 unità per trasportare non meno di 40.000 soldati, soprattutto mongoli, insieme, però, a truppe ausiliarie coreane e cinesi. È difficile stabilire se si trattasse di un'invasione vera e propria o di una ricognizione in forze. La prima azione fa certamente propendere per la prima ipotesi: la flotta salpò per l'isola di Tsushima, più o meno a metà strada tra la costa meridionale della Corea e quella occidentale dell'isola giapponese di Kyushu. Una volta sbarcati, i Mongoli spazzarono via il modesto contingente di difensori e poi proseguirono verso la più piccola isola di Iki, a soli 20 chilometri circa da Kyushu. L'ancor più esigua guarnigione oppose una resistenza anche minore, anche se la leggenda giapponese dice che l'ostinato coraggio dei samurai provocò la rabbia dei Mongoli, invece della loro ammirazione.
Il 18 novembre 1274, la flotta si presentò al largo della baia di Hakata, nell'isola di Kyushu, e il giorno seguente i Mongoli sbarcarono. Essi si impadronirono rapidamente della città di Hakata e, poco dopo, furono affrontati dal contingente di samurai in servizio nella zona: invece di attendere l'arrivo dei rinforzi già in marcia, i guerrieri si gettarono sui nemici, ritrovandosi in condizioni disperate di inferiorità. Il classico modo di combattere dei giapponesi implicava Io scontro individuale, in cui il guerriero poteva dimostrare il suo valore e la sua abilità con la spada, mentre i Mongoli, fedeli al loro retaggio della steppa, combattevano a cavallo, lanciando da lontano nugoli di frecce sulla massa dei nemici; essi usavano anche una specie di catapulta che lanciava palle metalliche che esplodevano al contatto, anche se, probabilmente, si trattava di petardi, piuttosto che di bombe vere e proprie: tuttavia, il rumore e le ustioni che provocavano impressionarono certamente i giapponesi, oltre a causare numerose perdite. Neanche la fanteria degli invasori combatteva alla maniera giapponese, mantenendo una formazione a falange, le cui lance tennero a bada gli avversari. Nonostante l'insuccesso, i giapponesi inflissero ai Mongoli perdite non indifferenti; non sappiamo quante, ma, quando i samurai abbandonarono il campo ritirandosi dietro i terrapieni e nelle fortificazioni di Dazaifu, alcuni chilometri nell'entroterra, gli avversari non li inseguirono. Il gran numero di frecce lanciate durante lo scontro, la scarsa familiarità con il terreno, il previsto arrivo di rinforzi per i difensori e la quantità di uomini uccisi o feriti convinsero i Mongoli a trascorrere la notte sulle navi, rifornendosi di armi e riorganizzandosi: si dimostrò un errore fatale, perché quella notte si levò una burrasca che fece affondare parecchie imbarcazioni, causando la perdita di circa un terzo delle forze d'invasione. La mancanza di esperienza navale fu certamente un argomento che persuase i Mongoli a non rimanere in acque ostili, e si può supporre che anche i capitani coreani premessero per tornare in patria; perciò, le navi superstiti rientrarono in Corea. Il bakufu, esaminando il comportamento delle truppe durante l'invasione, si rese conto che il Paese era stato salvato dalla forza della natura, piuttosto che da quella delle armi: Hojo ritenne giustamente che Qubilai non si sarebbe rassegnato a una simile disfatta e avrebbe mandato un altro esercito contro le isole; di conseguenza, ordinò di raddoppiare gli sforzi per la difesa della nazione. Anche se l'intera costa meridionale di Honshu, la maggiore isola giapponese, e quella occidentale di Kyushu rappresentavano potenziali obiettivi, la baia di Hakata sembrava il luogo più probabile per una seconda battaglia: perciò, Hojo comandò che fosse costruito un muro lungo tutto il litorale. Per motivare la popolazione, decretò che chiunque si fosse comportato bene nel combattere i Mongoli, fosse o no al servizio di un signore feudale, sarebbe stato premiato dal governo. Proprio una simile promessa di ricompensa e miglioramento aveva spinto gli abitanti dell'Europa a partecipare alle Crociate, meno di un secolo prima, e anche i giapponesi risposero all'appello.
Nel frattempo, Qubilai era effettivamente irritato per il fallimento del suo corpo d'invasione, ma era talmente impegnato ad annientare gli ultimi resti dei Sung nella Cina meridionale, che dovette rinviare la punizione. Egli mandò immediatamente altri emissari in Giappone con le stesse richieste fatte dai precedenti; piuttosto che rimandarli indietro senza risposta, Hojo li fece decapitare, riservando lo stesso trattamento anche a quelli che vennero dopo, fino a quando, nel 1279, Qubilai smise di inviarli. In Giappone, il bakufu decise non solo di rinforzare le difese costiere, ma anche di avviare la costruzione di una marina da guerra: sarebbe stato necessario tutto l'aiuto possibile, perché, quando Qubilai volse di nuovo la sua attenzione ai giapponesi, oltre alla flotta coreana disponeva anche delle navi e degli equipaggi presi ai Sung appena sconfitti. Quindi, egli cominciò a radunare due flotte e due eserciti d'invasione. In Corea, furono di nuovo messe insieme 900 navi con 17.000 marinai per trasportare 10.000 soldati coreani e altri 15.000 tra mongoli e cinesi: questo corpo di spedizione venne battezzato esercito orientale, mentre quello meridionale, costituito a sud dello Yangtze, comprendeva presumibilmente 100.000 uomini che sarebbero stati trasportati con ben 3500 navi. Era previsto che le due armate si sarebbero riunite a Tsushima, per poi proseguire insieme alla volta di Kyushu. L'esercito orientale salpò dalla Corea il 22 maggio 1281, sbarcando a Tsushima il 9 giugno. Nonostante il contingente difensivo giapponese fosse stato rafforzato dopo l'attacco precedente, anche questa volta i difensori si trovarono in condizioni di inferiorità numerica e vennero annientati. Simile sorte toccò a Iki il 14 giugno, dopo di che i Mongoli si affrettarono verso la baia di Hakata, arrivando a destinazione il 21 giugno. L'esercito meridionale non era ancora completamente pronto e si trovava quindi piuttosto indietro sulla tabella di marcia; invece di attenderlo, quello orientale procedette con l'invasione. La prima squadra di navi oltrepassò la baia di Hakata, dirigendosi verso l'isola di Honshu, ma si trattava solo di una diversione a cui i giapponesi non diedero peso. Il grosso della flotta mongola entrò nella baia, sbarcando gli uomini lungo la penisola di Shiga, che, a nord, ne chiude a metà l'imboccatura. Il muro litoranee non era stato esteso fino a quel punto, perciò i Mongoli erano nella posizione di poter aggirare le difese avversarie: per impedire che ciò avvenisse, i giapponesi bloccarono il passaggio con ondate di attaccanti, un anticipo delle cariche banzai della seconda guerra mondiale. L'azione diede i frutti sperati, e i Mongoli non riuscirono ad avanzare oltre la testa di sbarco. Il ristretto campo di manovra lasciato dal muro impedì loro di organizzare un attacco in massa, e i giapponesi furono in grado prendere qualche iniziativa. Nottetempo, le piccole imbarcazioni che avevano costruito dopo la precedente invasione venivano mandate tra le navi nemiche: con a bordo solo pochi samurai, i battelli scivolavano nelle tenebre di fianco ai più grandi vascelli coreani; in silenzio, i samurai si arrampicavano a bordo, uccidevano quanti più Mongoli addormentati potevano, tornando poi sulle barche e fuggendo. Questa tattica di disturbo si dimostrò così efficace che i nemici si ritirarono con la flotta a Tsushima: qui attesero l'arrivo dell'esercito meridionale, ma il poco spazio e il caldo estivo provocarono nel frattempo un'epidemia che uccise circa 3000 uomini. Le prime navi dell'armata meridionale furono in vista il 16 luglio; il 12 agosto, le due flotte erano ormai completamente riunite e l'invasione cominciò. Davanti alla superiorità delle forze nemiche, la popolazione giapponese fece quello che uomini e donne hanno sempre fatto in tempi di estremo pericolo: pregò gli dèi affinché intervenissero in suo aiuto. Si dice che una nazione in preghiera possa ottenere miracoli e, il 15 agosto 1281, ne avvenne uno. Secondo le cronache giapponesi, all'orizzonte apparve una piccola nube, che crebbe fino a provocare una violenta tempesta: il fortunale investì lo stretto di Tsushima per due giorni, distruggendo gran parte della flotta avversaria. Le fonti mongole non forniscono cifre, ma i resoconti giapponesi dell'epoca affermano che appena 200 navi riuscirono a non fare naufragio o a non essere scaraventate sulla riva, mentre l'80 per cento delle truppe affogò o venne ucciso sulle spiagge dai soldati giapponesi.
Qubilai Khan cominciò a progettare una terza invasione, ma nel 1284, quando sorsero problemi nell'Asia sud-orientale, vi rinunciò. Apparentemente, la guerra aveva inflitto danni minimi all'impero. Il contingente cinese dell'esercito mongolo sopportò il peso maggiore della sconfitta, con 12.000 uomini ridotti in schiavitù dai giapponesi. I Mongoli persero la loro parte di truppe e navi, ma poco altro: fu il loro orgoglio a risentirne, in quanto i giapponesi avevano ora il privilegio di essere l'unico popolo orientale a non pagare tributi al Gran Khan. Paradossalmente, la vittoria giapponese fece più male che bene al governo di Hojo. Durante le prime fasi dell'invasione dei Mongoli, il governo si era rivolto al Ciclo invocando aiuto; in tutto l'impero, erano state levate preghiere, salmodiate liturgie e bruciato incenso nei templi. La classe sacerdotale aveva rivendicato il merito della vittoria sugli invasori mongoli, affermando persine di aver causato la provvidenziale tempesta che aveva salvato la nazione. Molti dei sacerdoti si aspettavano, e ricevettero, enormi ricompense per l'aiuto fornito: ciò irritò i soldati, che avevano combattuto così duramente per la vittoria e il cui pagamento per i servizi resi era stato assai inferiore. Il successo ottenuto non portò ricchezze ai vincitori, perché le forze d'invasione non lasciarono terre come bottino di guerra da spartire tra i membri del bakufu, i capi militari che erano anche i maggiori proprietari terrieri, e questo fatto sminuì il loro prestigio. Dal momento che il bakufu si fidava ben poco dei Mongoli, per altri due decenni si continuarono a prendere precauzioni nell'eventualità di una terza invasione; ciò costituì un considerevole onere finanziario per il governo e amareggiò ulteriormente i guerrieri, che continuavano ad attendere la loro ricompensa. Tutto questo, alla fine, portò alla caduta della famiglia Hojo. L'incapacità dei Mongoli di istituire un regime straniero in Giappone diede alle isole la possibilità di rimanere isolate da influssi esterni. Nel XVI secolo, quando cominciarono ad arrivare gli europei, il governo, ritenendo che la stabilità della società giapponese fosse minacciata, decise di rifiutare quasi tutti i visitatori stranieri e i commerci con l'estero. Fu soltanto verso la metà del XIX secolo che il Paese si aprì al mondo di fuori, quando una flotta statunitense al comando del commodoro Matthew Perry obbligò il governo giapponese ad accogliere un ambasciatore americano. Seguirono altre ambasciate occidentali, e il Giappone, rendendosi conto dell'enorme divario tecnologico che lo separava dal resto del mondo, cominciò ad accettare gli scambi con altre nazioni. Secoli d'isolamento e il tradizionalismo della loro cultura rendevano i giapponesi sospettosi dei sistemi degli stranieri, soprattutto europei, e delle ragioni che li spingevano. In Giappone, la furia vendicatrice che aveva distrutto i Mongoli finì per essere espressa con il termine kamikaze, Vento divino. La leggenda si sviluppò nel corso dei secoli e rifiorì negli anni Quaranta del secolo scorso: sperando di suscitare un Vento divino per salvare il loro impero, durante l'invasione americana delle Filippine, nell'ottobre del 1944, diversi piloti giapponesi adottarono la tattica degli attacchi suicidi, che continuarono fino alla resa, quasi un anno dopo.